Siamo un gruppo di artisti, ci siamo conosciuti su queste pagine virtuali. Ci confrontiamo, leggiamo reciprocamente ciò che produciamo, forse abbiamo nostalgia dei tempi in cui l'incontro era occasione di competizione e di collaborazione, si dibatteva su temi che poi diventavano il manifesto delle avanguardie.
Oggi non esiste più nulla di tutto questo, ma abbiamo l'opportunità di usare mezzi che possono far cambiare la senzazione di egoistico isolamento. L'arte, qualunque essa sia, ha bisogno di confronto.
Questa operazione si chiamerà Cadavre Exquis, dal gioco inventato dai Surrealisti esattamente cento anni fa, nel 1925, a Parigi.
Se nel gioco ognuno metteva una frase o un disegno all'insaputa dell'altro e alla fine si aveva un componimento eccentrico fatto da più mani, qui saranno più mani che si cimenteranno con un solo argomento.
Per una settimana al mese o poco più, a seconda dei partecipanti, leggerete o vedrete creazioni fatte da scrittori e artisti.
Una al giorno.
Una brutta giornata
Di Alex Martell
Tutto andò male già dalla mattina. Si trattava, senza dubbio, di una di quelle giornate storte, che vedi subito. Mi scottai prendendo la caffettiera dal fuoco e la feci cadere per terra. Non ci voleva proprio: il mio caffè bollente si sparse sul parquet disegnando quella che appariva come una macchia di Rorschach; aveva la forma di una libellula.
In quel momento sentii un tintinnio che proveniva dal mio cellulare, mi precipitai a prenderlo. Quel suono lo faceva solo quando stava per cominciare una riunione; era strano, non avrei dovuto avere alcuna riunione quella mattina.
Ma ve l'avevo già detto, no? Era una di quelle giornate. Io pensavo, credevo di non avere riunioni e invece ce n'era una: ed ero già in ritardo.
Per questo motivo presi la macchina, ma anche così per arrivare in ufficio mi ci sarebbero voluti almeno quaranta minuti. Avrei tardato di un quarto d'ora, poco male, le riunioni non cominciano mai puntuali. Ero ottimista. Mentre mi allacciavo la cintura e mettevo in moto l'auto mi chiedevo: "Chi diavolo avrà convocato una riunione così presto?"
Ero più che sicuro che la sera prima, quella convocazione sul mio calendario non ci fosse affatto. "Perché tutta questa urgenza?" Continuavo a domandarmi innervosito mentre procedevo lungo il dedalo delle strette vie attorno a casa mia.
Timbrai un'ora dopo, c'erano stati due incidenti. Inoltre, la polizia locale aveva chiuso una delle strade secondarie - una di quelle alternative che prendevo quando la tangenziale rimaneva bloccata per qualche motivo - a causa di una manifestazione non autorizzata. Non sapevo proprio come avessi fatto ad arrivare in ufficio, quel giorno.
Anche il parcheggio era pieno e aveva pure cominciato a piovere. Non avevo l'ombrello: ero uscito di corsa e l'avevo scordato. Timbrai e poi mi precipitai verso l'ascensore, pensai: "Forse la giornata ha dato tutto il suo peggio..."
Camminavo velocemente lungo i corridoi: ero bagnato, spettinato e avevo l'affanno, ma finalmente ero arrivato davanti alla porta. Bussai ed entrai senza aspettare la risposta.
"Ah, ce l'hai fatta, aspettavamo solo te." Fu l'accoglienza un po' fredda del mio capo. Lui e altre cinque persone erano sedute attorno al tavolo in centro al locale, con i loro laptop già aperti.
Mi guardai attorno spaesato, mentre salutavo e chiudevo la porta. Conoscevo solo tre delle persone presenti, oltre al mio capo. C'era Giorgia, una ragazza gentile assunta da poco. Aveva preso un master in astrometria e si occupava di progettare i sensori per le missioni delle sonde nello spazio profondo. A volte la incontravo in cucina mentre si preparava il caffè. Facevamo quattro chiacchiere, era una ragazza timida e molto gentile. Sapeva tutto di astrometria.
Alla sua sinistra sedeva Federica. Lei era l'anziana del gruppo, nel senso che quando mi avevano assunto era qui da un paio d'anni. Era ancora giovane e carina, aveva sempre quell'espressione maliziosa quando ti sorrideva. Il suo unico vizio era di perdere facilmente le staffe. Quando le capitava si metteva anche a urlare e avevi voglia di non essere lì a discuterci insieme. Era ostinata e determinata. Pensavo che lei e Giorgia fossero amiche: le vedevo spesso chiacchierare.
Chiudeva la fila Michele. Un ragazzone che avevamo rubato alla Normale di Pisa. Se dovevi costruire qualcosa era l'uomo per te. Le sue competenze passavano dalla meccanica all'elettronica. Avevamo lavorato insieme su alcuni progetti. Era molto simpatico anche se era un ragazzo insicuro.
Dall'altra parte del tavolo sedevano due persone che non conoscevo. I loro volti mi erano, in qualche modo, familiari. Dovevo averli già incrociati nei corridoi, forse pure a qualche riunione. I progetti a cui lavoravo coinvolgevano centinaia di persone e quando si organizzavano degli incontri di avanzamento, non sempre si conoscevano tutti i partecipanti. I tempi erano sempre stretti e non c'è mai il tempo di presentarsi e conoscersi tutti.
Mi stavano fissando. Non sembravano molto contenti del mio ritardo.
Mentre mi toglievo la giacca e mi sistemavo al fianco di Michele, continuavo a scusarmi. Fui pronto in fretta, feci attenzione a fare meno rumore possibile.
"Ora ci siamo tutti," esordì il mio capo, "possiamo cominciare."
Dette quelle parole sentii che scriveva qualcosa sul computer. Dapprima pensai si trattasse di una nota per la riunione, prendeva sempre appunti così, ma poi notai la targhetta alla porta che si era illuminata diventando rossa e la serratura scattò con un rumore meccanico. Delle persiane blindate cominciarono a scendere oscurando le finestre dell'ufficio, fino a privarci completamente della vista esterna.
I neon freddi si sostituirono alla luce arancione che prima proveniva da fuori. Non sentivo più nemmeno il battere della pioggia. Eravamo isolati.
Ero sorpreso e agitato, ma guardandomi attorno notai che nessun altro sembrava nervoso quanto me. Cercavo di incrociare lo sguardo del mio capo, ma lui mi ignorava.
Quando l'ufficio fu completamente isolato, lui riprese a parlare: "Vi starete chiedendo perché siete stati convocati qui, immagino."
Nessuno rispose.
"Tutti voi dovreste conoscere il progetto Innes-Shapley, dico bene?"
Anche a questa domanda nessuno rispose, tutti si limitarono a un cenno d'assenso con la testa. Anche io, perché conoscevo bene quel progetto. Si trattava di un piano per l'esplorazione dello spazio profondo. Una missione che prevedeva di uscire dal sistema solare e dirigersi verso la stella più vicina a noi. Io avevo partecipato alla progettazione del sistema di telemetria che avrebbe permesso di conoscere lo stato della sonda e della strumentazione di bordo.
Ma avevo collaborato insieme a decine di altri ingegneri a questo progetto. Anche Michele aveva lavorato alla missione Innes-Shapley, lui si occupava del sistema di propulsione. La sonda sarebbe stata dotata di un nuovo tipo di motore a fusione. Era l'unica tecnologia possibile per quelle distanze, ma i modelli esistenti non bastavano, occorreva svilupparne uno più potente. Era molto entusiasta del suo incarico e continuava a vantarsi dei risultati ottenuti e di quanto sarebbe stato eccezionale il motore, una volta terminato.
Giorgia aveva lavorato a dei sensori ottici per le videocamere. Mi ricordavo che si vantava di come fossero riusciti a realizzare un sensore talmente sensibile che avrebbe permesso di scattare foto a una definizione tale che non si era mai visto prima. Di Federica sapevo solo che faceva parte della squadra che progettava le missioni che la sonda avrebbe svolto una volta giunta nel sistema di Proxima Centauri.
Delle altre due persone presenti, invece, non avevo idea di come fossero coinvolte. La donna aveva i capelli rossi ben pettinati e tirati indietro, raccolti in una coda di cavallo che le cadeva sulla nuca. Indossava un tailleur di un colore spento, sotto aveva una camicetta bianca. L'uomo sembrava di mezza età, era sicuramente più vecchio del mio capo. I suoi capelli ricchi e folti erano quasi completamente bianchi.
"Come saprete," riprese il mio capo, "il progetto è ancora altamente riservato."
In quel momento notai che il mio portatile era off-line. Ovviamente doveva essere una conseguenza del protocollo di isolamento.
"Scusami, Roberto," intervenne lo sconosciuto, "non capisco per quale motivo sono stato convocato in questa riunione. Mi sembra tutto un po' inusuale. Possiamo sbrigarci? Ho una giornata piena, oggi."
"Te la dico subito la ragione, Gianluca." Gli rispose il mio capo guardandolo dritto in faccia con un'espressione seria, la stessa che poi riservò a ognuno di noi. Ci fissò uno per uno seguendo l'ordine in cui eravamo seduti a partire dall'uomo brizzolato.
"Siamo qui perché sembra che ci sia stato un problema di sicurezza che coinvolge uno di voi."
Quelle parole ebbero su di me l'effetto di una bastonata in testa: ne rimasi stordito.
Un problema di sicurezza? Ma che cosa stava succedendo?
L'agenzia prendeva molto sul serio la riservatezza, avevo assistito a incidenti nei quali degli stagisti, per vantarsi, avevano diffuso informazioni che non avrebbero dovuto.
Furono allontanati silenziosamente. Quello che era successo si seppe solo quando erano già andati via. Che ci considerassero tutti colpevoli? Ma che cosa poteva essere successo? Io di sicuro non avevo fatto nulla: ero innocente! O forse avevo commesso un errore. Potevano avermi hackerato!
Quando mi ripresi guardai di nuovo il mio capo, ora non mi stava più fissando. La sua espressione era tranquilla. A dirla tutta era la sua espressione abituale, a volte poteva risultare persino inopportuna.
"Sì, uno di voi è responsabile di aver compromesso la sicurezza della missione." Puntualizzò mentre continuava a scrutarci uno a uno.
"Purtroppo non siamo in grado di stabilire con certezza chi di voi sia stato."
"Vi aspettate che confessiamo?" Questa volta fu la ragazza dai capelli rossi a intervenire. Aveva un sorriso di sfida e i suoi occhi erano intensi e penetranti. La sua voce aveva una tonalità bassa ma era morbida e gradevole da ascoltare.
"Capo," intervenne Michele, "non penserà che io possa centrarci qualcosa, vero?"
"Abbiamo fatto le nostre ricerche, purtroppo siamo riusciti a restringere il cerchio solo a voi sei."
"E per quale motivo hanno affidato a lei il compito di indagare?"
"Le cose stanno così, Federica," fu la sua risposta. "Voi siete i sospetti e io ho il compito di trovare il colpevole."
"Ma... Ma... Non capisco..." Era di nuovo Michele. "Perché siamo chiusi dentro?"
Notai che la sua faccia diventava sempre più rossa e che aveva la pelle lucida. Si era già slacciato la camicia fino allo stomaco lasciando esposta la sua canottiera macchiata di sudore.
"Come farà a stabilire chi è il colpevole?" Chiesi.
"È una buona domanda, Riccardo."
La stanza divenne silenziosa aspettando la rivelazione. Lo osservai mentre frugava in una tasca della sua valigetta e ne estrasse un oggetto particolare che appoggiò sul tavolo. Lo mise proprio al centro in modo che tutti potessimo vederlo. Era a forma di poligono regolare con le superfici lisce e sembrava qualcosa di molto compatto. Inoltre, doveva trattarsi di un oggetto pesante, lo avevo dedotto da come lo stava maneggiando, anche se non riuscivo a capire di cosa si trattasse.
"Che cos'è?" Chiesi senza pensarci.
"È un dispositivo che mi permetterà di rivelare il colpevole," rispose.
"Sta scherzando!" Sbottò Gianluca. "Che cosa significa questa buffonata? Come dovrebbe rivelare chi di noi ha compromesso la sicurezza?"
A questo punto, il mio capo smise di rispondere e si limitò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé.
"Io... Io... Sono innocente!" Gridò Michele che ora era paonazzo e ansimava visibilmente.
"Calmati, Michele." Gli sussurrai appoggiandogli una mano sulla spalla. Lui reagì con un movimento improvviso, scacciando via la mia mano come per liberarsi da una morsa.
"Lasciami!" urlò.
"Michele?"
"No, voi... Uno di voi è il colpevole, perché non lo dite?"
I suoi occhi erano diventati lucidi e girava la testa a destra e a sinistra con scatti rapidi verso ognuno di noi.
"Ora calmati, non fare il bambino. Si sistemerà tutto." Disse Giorgia con un tono incerto.
"Capo, non ci ha detto come quell'oggetto dovrebbe svelare il colpevole," insistei.
"È molto semplice," disse con una smorfia, "è un apparecchio che emette un EMP."
"Se lo attiva, ci ucciderà," il commento mi uscì di bocca insieme a tutto il mio fiato.
Lui si limitò a scuotere la testa su e giù lentamente.
"Ci vuoi uccidere tutti? Roberto, sei impazzito?" Disse l'uomo brizzolato.
La voce di Gianluca mi scosse e diedi uno sguardo al tavolo. D'istinto spostai la sedia come per allontanarmi. Non sarebbe servito a nulla. Quell'apparecchio doveva avere una portata che copriva l'intera stanza. E noi eravamo chiusi dentro. Isolati, senza la possibilità di fuggire.
Guardai il mio capo e lo vidi rilassato. Come? Pensai. Che significa?
In quel momento Michele afferrò il cilindretto con la mano destra, se lo portò vicino e cominciò a scrutarlo. Prima con curiosità poi con una crescente frenesia.
"Che fai?" Gli disse Giorgia. "Rimettilo giù, se lo attivi siamo morti!"
Il suo volto era pallido.
Volevo intervenire ma avevo paura di peggiorare la situazione. Michele sembrava fuori di sé. Era sudato e rosso in volto, respirava a fatica e stava rigirando quell'oggetto fra le mani. Io ero terrorizzato.
Anni prima avevo avuto un incidente d'auto molto grave, le mie condizioni erano critiche e avevano richiesto un intervento particolare. Mi impiantarono un sistema nervoso cibernetico per rimettere insieme le parti distrutte del mio corpo.
In quel momento ne fui sconvolto: la gente mi squadrava dall'alto in basso quando camminavo per strada. Fissavano tutti la placca di metallo visibile sulla mia tempia sinistra, che scendeva lungo il lato del viso fino al collo.
Ora, invece, ero soddisfatto del mio impianto cibernetico. Gli aggiornamenti mi avevano permesso di potermi collegare alla rete e fare molte cose senza la necessità di avere un telefono o un computer fra le mani. Non potevo servirmene sul lavoro, per ragioni di sicurezza. Per il resto mi ero dilettato a migliorarmi utilizzando ogni trucco informatico che conoscessi.
Solo piccole cose, s'intende, richiedevano tanta concentrazione che ogni volta che usavo questa mia abilità mi sfiniva. Per il lavoro utilizzavo un laptop come tutti, ma avevo indiscutibilmente una marcia in più.
In quel momento, questa mia condizione si era improvvisamente trasformata in una debolezza. Un EMP non avrebbe fatto nulla a un essere umano completamente biologico. Chi come me, invece, viveva grazie a un sistema cibernetico ausiliario, avrebbe subito una sorte diversa.
L'impulso elettrico generato da quell'oggetto avrebbe spento i circuiti e poi il mio corpo avrebbe cominciato a collassare fino a quando sarei morto.
La mia condizione era condivisa da tutti i presenti nella sala a eccezione del mio capo, almeno per quello che ne potevo sapere.
"Ehi, tu, posalo! Hai capito?" urlò la rossa a Michele.
"Hai sentito cosa ti ha detto?" gli fece eco Gianluca.
Ma Michele sembrava non curarsi più di noi; la sua attenzione era catturata da quel piccolo cilindro che continuava a rigirare fra le mani in quello che ora sembrava un loop infinito. Osservava la parte superiore, quella con il pulsante per attivarlo. Era un cerchio rosso incavato e protetto da uno schermo di plastica trasparente, così che per premerlo, sarebbe stato necessario spostarla. Immaginavo fosse una specie di sicura, per evitare di premere il pulsante inavvertitamente. Esaminato il sopra spostava la sua attenzione ai lati, che erano lisci e senza alcuna fessura: come se il meccanismo fosse stato inserito in un tubo. Infine osservava la base che era una superficie liscia e perfetta. E quindi ricominciava.
A un certo punto lo strinse con entrambe le mani e se lo avvicinò al petto, come se cercasse di svitarlo.
Ero paralizzato dalla paura, sentivo il cuore che stava per scoppiare e non riuscivo a pensare lucidamente. Le gocce di sudore ghiacciate si stavano accumulando sulle tempie e mi lasciavano dei piccoli brividi mentre colavano lungo le guance.
Gianluca si alzò di scatto e corse attorno al tavolo per poi avventarsi contro Michele e cercare di prendergli l'oggetto. Giorgia urlò vedendo i due avvinghiati l'uno all'altro in un abbraccio attorno a quell'oggetto da cui dipendeva la vita di tutti noi. Federica si voltò verso di me con gli occhi sbarrati: "Ehi, vuoi fare qualcosa?"
Io non riuscivo ancora a muovermi e pensavo che sarei potuto morire in qualunque momento. Mi limitavo a osservare quella scena come se non fossi lì con loro. L'uomo anziano era robusto e più alto di Michele, riuscì a spingerlo indietro. Nessuno dei due voleva mollare, anche se Michele sembrava avere la peggio. Il mio collega perse l'equilibrio e per tenersi in piedi fu costretto a fare un paio di passi indietro. Mi superarono sbattendo sulla mia spalla. Il colpo fece rovinare a terra Michele che trascinò con sé l'altro, che gli era finito sopra.
A quel punto mi alzai senza capire perché, per poi tentare di afferrare l'uomo per il busto: volevo trascinarlo via, ma lui mi piazzò un colpo con il gomito sulla faccia. Finii contro la finestra e faticai per restare in equilibrio. Mi toccai il naso con la mano. La osservai mentre tremavo. Ero ferito. La macchia scarlatta sulle mie dita mi pietrificò.
"Smettetela!" urlai con tutte le mie energie.
In quel momento l'oggetto scivolò via dalle mani di Michele e con una parabola in aria finì di nuovo sul tavolo con un tonfo che mi fece sobbalzare. Lasciò un bel segno. Invece di rimbalzare, continuò a rotolare prima di fermarsi. Finì vicino al bordo dov'era seduta la ragazza dai capelli rossi. L'uomo brizzolato cercava di alzarsi per inseguire l'oggetto. L'età più giovane di Michele gli permise di essere più rapido nel rimettersi in piedi.
Ora stava alle spalle dell'uomo, respirava a fatica per lo sforzo della lotta e sembrava osservare la situazione. Era spettinato e la faccia paonazza per lo sforzo della lotta. Il suo sguardo era alieno, non lo riconoscevo, c'era della ferocia. Possibile, Michele?
Notai che guardava verso Gianluca, lo fissava mentre cercava di incamerare ossigeno. Il suo obiettivo era cambiato. Non voleva più impadronirsi dell'oggetto: ora aveva occhi solo per il suo avversario. Con un attacco repentino quanto violento, gli piazzò un colpo in mezzo alle scapole. Si sentì il gemito dell'uomo per la fitta di dolore e poi il tonfo del suo corpo sul tavolo. Le vibrazioni si propagarono e ridettero vita al cilindro che si mosse rotolando fino al bordo del tavolo per poi sparire oltre. Tutti sentimmo forte il colpo quando arrivò sul pavimento.
Michele non sembrava ancora soddisfatto. L'uomo brizzolato, Gianluca, era ancora disteso sul tavolo. Lui gli era quasi sopra. Vidi che lo voltò solo per poterlo stringere con forza al collo.
"Michele, che stai facendo?" Strillò Giorgia.
"È lui!" Gli rispose Michele. "Non capite? È lui la spia!"
Mentre lo diceva continuava a stringergli il collo, il poveretto tentava di liberarsi come poteva. Mi gettai contro Michele per liberare il malcapitato da quella morsa. Tiravo con tutte le mie forze, ma lui resisteva con tenacia incredibile. Il suo sguardo era feroce e aveva la bocca aperta in un ghigno selvaggio. Schiumava.
Davo fondo a tutte le mie forze, lo chiamavo, ma era tutto inutile. Non riuscivo a farlo cedere in nessun modo, il cuore mi batteva all'impazzata e mi sentivo mancare. Ero impotente. L'uomo dai capelli brizzolati si stava dimenando sotto di noi nel disperato tentativo di spezzare la morsa alla sua gola. Rinunciai a spingerlo e cominciai ad afferrargli un braccio per allentare quella presa. Ma anche quel tentativo non riusciva a indebolire l'attacco del mio collega che sembrava avere energie infinite.
A un certo punto mi accorsi che Gianluca non si muoveva più e dopo un momento anche Michele allentò la sua presa. Smise di spingere in avanti usando tutto il suo peso contro il suo avversario e anche contro di me come aveva fatto fino a poco prima.
Controllava se l'uomo si muovesse ancora, poi allentava un poco la presa delle mani. Si teneva pronto a riprendere al primo cenno di movimento. Alla fine le ritrasse del tutto; continuava ad affannare e a schiumare dalla bocca. Il suo sguardo era perso nel vuoto.
Mollai tutto e indietreggiai, mi misi le mani nei capelli: "Michele, che cosa hai fatto?!"
Dopo un momento, quando il respiro glielo consentì, disse: "Era lui il colpevole!"
Il mio capo non si era mosso. Era seduto in silenzio con lo sguardo fisso di fronte a sé. Le tre donne si limitavano a osservare la scena. L'orrore si poteva leggere sui loro volti pallidi e dagli sguardi increduli. Poi ci guardammo negli occhi senza capire che cosa fare. In quel momento, la rossa con il tailleur si chinò per terra e quando riemerse aveva in mano l'EMP. Lo osservava con curiosità e sembrava si fosse dimenticata di quello che era appena successo.
"Lascialo!" Ringhiò Michele avventandosi contro la poveretta. Ebbi il tempo di vedere una luce che mostrava la determinazione negli occhi della ragazza. Pensai che non avrebbe ceduto l'oggetto così facilmente. Infatti, lei si oppose con coraggio e ostinazione a Michele. Sembrava volesse mantenere il controllo dell'oggetto a ogni costo. La situazione degenerò davanti ai miei occhi con il mio collega che stava strappando la giacca del tailleur della ragazza. Lei urlava, era già riuscita a morderlo alla spalla e sulla guancia. Gli tirava calci negli stinchi, ma sembrava che nulla potesse farlo desistere dall'appropriarsi del dispositivo EMP. Allungava quelle mani su di lei: una sul cilindro l'altra ora sul seno ora sul braccio. Infine arrivò ai suoi capelli e cominciò a tirarli con forza.
Io guardavo attonito, di nuovo paralizzato dal terrore e con il fiato corto per l'agitazione, le tempie mi stavano esplodendo, pregavo perché succedesse qualcosa, qualunque cosa.
In quel momento si sentì un colpo forte. Una vibrazione secca da sentirla fino nelle ossa. Un botto spaventoso. Non capivo che cosa fosse successo poi notai i zampilli di sangue provenienti dal collo di Michele. Il liquido rosso usciva copioso e precipitava sul tavolo e sulla ragazza, mentre lui perseverava nel tentare di impossessarsi dell'oggetto. Mi sembrava una scena irreale, Michele era inarrestabile, nonostante la ferita.
Mi voltai verso Federica e Giorgia e vidi che Federica era in piedi e puntava il braccio verso Michele. Nella mano stringeva qualcosa di piccolo e luccicante. Doveva trattarsi di qualcosa di pesante perché osservai che ritraeva il braccio vicino al corpo, mantenendo la mano puntata verso Michele.
Dopo un po' il mio collega cominciò ad accasciarsi a terra e mi spostai per osservarlo. Sembrava cadere al rallentatore, come un trenino elettrico che esauriva la carica fermandosi a poco a poco fino a cessare di muoversi. Finì a terra con la faccia rivolta verso l'alto. Boccheggiava come se gli mancasse l'aria. Ora il suo viso era pallido e madido di sudore. Alla fine smise di muoversi e rimase lì con la bocca e gli occhi aperti.
La ragazza dai capelli rossi era in piedi, i suoi vestiti erano sgualciti e strappati. La camicetta bianca che indossava ora era quasi completamente rossa del sangue di Michele. Ansimava e teneva stretto fra le sue mani quel cilindro per cui aveva combattuto.
"Dammelo!" Disse Federica puntando l'arma ora contro la ragazza.
Lei la guardava con un sorriso... No, era un ghigno e lo sguardo freddo e penetrante di quei due lampi azzurri che aveva in volto. Ansimava per lo sforzo, ma sul viso emergeva tutta la sua determinazione.
"Se spari," disse lei cercando di recuperare il fiato, "moriremo tutti."
"Ci uccideresti?" La sfidò Federica.
"Se muoio io che m'importa." Le ribatté l'altra con un'espressione di sfida sul volto.
Sentivo Giorgia singhiozzare, sembrava l'ultimo rumore rimasto nella stanza.
"Hai una pistola? Come?"
"Ho il permesso per questa."
Dovette avermi visto un'espressione dubbiosa in volto perché poi precisò: "Vivo in un quartiere pericoloso. Mi permettono di tenerla nell'armadietto. Oggi sono arrivata di corsa, sai l'incidente, no?"
Scossi la testa su e giù e non dissi altro.
"Fede," disse quasi piangendo Giorgia, "metti via la pistola."
"Taci!" urlò, e poi aggiunse: "So bene quel che faccio."
Dicendolo si voltò verso la collega per guardarla in faccia. Il movimento fu improvviso e brusco, si sentì un nuovo botto.
"Oddio!" Gridai.
Giorgia cadde a terra, la sentii cadere.
"No, mi dispiace, non volevo...Io, non volevo..." Ora era Federica a piagnucolare per l'accaduto. Ma non ebbe tempo per il rammarico. La rossa con un guizzo atletico saltò sul tavolo a piedi scalzi e si lanciò sulla mia collega usando l'oggetto che aveva in mano come un'arma. La colpì più volte sulla testa tramortendola. Entrambe finirono sdraiate sul pavimento e Federica rimase sotto e non la vidi più muoversi.
Guardai il mio capo, ma lui sembrava come se stesse da un'altra parte. Era seduto con le mani sul tavolo, lo sguardo fisso nel vuoto e un'espressione indecifrabile. Lavoravo con lui da quasi quattro anni, non potevo credere che mi avrebbe ucciso premendo un pulsante!
Non sembrava preoccupato o nervoso; non capivo come potesse essere ma sembrava addirittura rilassato.
Insomma, avrebbero potuto isolarci uno per uno per poi interrogarci. Raccogliere delle prove su di noi. Magari anche frugare nei nostri appartamenti. Ma perché metterci tutti insieme e minacciarci in questo modo?
E poi, lasciare che succedesse tutto questo? Che senso aveva? Lo osservai più attentamente e mi resi conto che era proprio calmo. Lui era rilassato e serafico mentre noi morivamo attorno a lui. Mi scappò una risata isterica. È un brutto scherzo, pensai. Ora tutti si alzano e si mettono a ridere. Mi prenderanno in giro per anni per esserci cascato così.
Quando la ragazza si alzò aveva l'oggetto cilindrico in una mano e una pistola nell'altra. Si voltò verso di me e mi fissò con aria minacciosa. Indietreggiai fino a quando mi trovai con le spalle nell'angolo opposto della stanza. Lei avanzava con la pistola puntata in terra e lo sguardo fisso verso di me.
"Ora è il tuo turno." Disse.
"Io... Io non c'entro nulla. Non ho fatto nulla," dissi con una voce che non riusciva a celare tutta la mia disperazione. A lei sembrava non importare. Quando fu più vicina alzò il braccio nel quale aveva la pistola e mi trovai l'arma di fronte alla faccia. Mi coprii la testa con le braccia e le gambe mi cedettero, così finii a terra accovacciato e piagnucolando.
"Ti prego, no." Supplicavo. "Non devi farlo. Per favore... Per favore..."
Ogni frase che mi usciva di bocca aveva un suono man mano più flebile e i singhiozzi storpiavano le parole.
Lei non parlava e quando smisi di farlo anche io si sentiva solo il mio pianto. Aspettavo che tirasse il grilletto. Ero rassegnato. Sentii uno schiocco secco; tremai. Dopo un momento ebbi il coraggio di guardare. Vidi quel volto perfetto che ora era paralizzato. La bocca aperta da cui usciva un filo di bava, i suo occhi di ghiaccio mi fissavano, ma erano spenti. Notai solo dopo che il collo aveva una curva innaturale.
La vidi spostarsi indietro e lasciarmi spazio. Ma non stava camminando sembrava stesse come galleggiando. In quel momento mi accorsi che dietro di lei c'era il mio capo che la teneva di peso. Le afferrò la mano che stringeva ancora la pistola e se ne impadronì per poi rovesciare il corpo a terra.
"Grazie!" Dissi mentre cercavo di tirarmi su.
"Mi creda, capo, io non c'entro nulla. Non ho fatto nulla. Sono innocente."
"Lo so." Disse, mi puntò la pistola contro ed esplose un colpo.
"Si conclude così." Disse l'agente che aveva avviato la riproduzione.
"Vuole cambiare la sua deposizione?" Domandò il detective all'uomo ammanettato al tavolo. Lo stava fissando con uno sguardo duro e un ghigno di soddisfazione sulle labbra.
L'uomo non rispose.
"Non la vedo sorpreso," aggiunse, "anche se deve ammettere che questo dettaglio le era sfuggito."
Quell'ultima frase doveva aver colpito il segno perché l'uomo storse il labbro superiore e sputò: "Avete solo avuto fortuna."
"Certo," gli rispose il detective, "certo. Sa una cosa? È quello che sento più spesso da coloro che si siedono proprio lì dove sta lei adesso."
"Ma questa volta non posso che essere d'accordo," proseguì, "trovare le registrazioni di Riccardo è stata una sorpresa anche per noi. Chi poteva immaginare che avesse modificato i suoi impianti cibernetici in questo modo? Questi scienziati fanno cose strane, non è vero? Solo che questa volta è risultata pure utile."
Quella considerazione non sembrava suscitare l'entusiasmo del suo interlocutore. Improvvisamente sorrise: "Non potrete usare quella 'scatola nera' in un processo."
"È buffo che pensi che avrà un processo."
Dopo una pausa di silenzio, il detective sbatté il palmo della mano sul tavolo con violenza e disse: "Ricominciamo! Chi siete? Da dove venite? Cosa ci fate sul nostro pianeta?"
"Siete una specie inferiore," fu l'unica risposta dell'uomo ammanettato.
Il detective tossì una risata sorda e proseguì il suo interrogatorio.


Una brutta giornata… e che brutta! Ma bellissimo racconto.
Suspense, paranoia, e quel colpo di scena finale che ribalta tutto. Complimenti!